Non avrei potuto immaginare ritorno più amaro
Sono appena tornata in Italia dopo aver lasciato Gerusalemme per sempre, e non avrei potuto immaginare ritorno più amaro.
Lasciare un paese dove si ha vissuto per un numero d’anni, e che ha fatto da sfondo alla propria routine quotidiana, a gioie e dolori per così tanto tempo, è sempre un momento carico di emozioni. E’ un processo che ho già attraversato varie volte, ma mai un rientro in Italia mi è sembrato così amaro, come ora che ho lasciato Gerusalemme per sempre.
Non starò a ripetere cose che sono state riportate dalla stampa in questi ultimi giorni. Non dirò nemmeno cose che vengono condivise solo da chi ha davvero a cuore la verità e la giustizia. Quello che voglio esprimere è quanto sia diversa quest’esperienza. Quanto doloroso e profondamente angosciante sia lasciare un paese che ami nel mezzo della più profonda ingiustizia, violenza e discriminazione.
Quando ho lasciato il Perù (per citare l’addio più recente prima della Palestina) mi si è spezzato il cuore, e sapevo che il posto mi sarebbe mancato per sempre (e infatti). Ma quello che mi lasciavo alle spalle era un paese che nonostante le sue contraddizioni, era solido, in crescita, e compatto. I miei ricordi ruotavano attorno ai gloriosi momenti gastronomici e alla bellezza di alcuni dei quartieri di Lima, e a momenti caldi spesi con amici peruviani e non durante le mie giornate. Soffrivo perchè non ne avrei più fatto parte, ma non perchè ero preoccupata per per il destino dei miei amici o angustiata dalla situazione politica del paese.
Quando ho lasciato la Palestina meno di una settimana fa, eravamo già nel mezzo di un’operazione disumana condotta dalle forze israeliane in seguito alla scomparsa di tre giovani settler che erano poi, purtroppo, stati trovati morti. L’esercito aveva già messo a soqquadro un sacco di case in West Bank (tra cui case di gente che conosco personalmente, persone tra le più nobili e giuste della terra), svuotando armadi e cassetti, rovesciando per terra barattoli di sale e zucchero, terrorizzando famiglie intere, compresi i bambini piccoli, con armi e cani, mettendo tutto sottosopra e lasciando gli averi delle famiglie sparsi sul pavimento, in un disgustoso atto di disprezzo. Erano entrati in scuole, ospedali, associazioni culturali e avevano distrutto macchinari e rubato computer. Avevano arrestato un numero incredibilmente sproporzionato di “sospetti” (circa 600, vi lascio giudicare), e, ancora peggio, ucciso una decina di persone, tra cui due minori.
Due giorni dopo il mio arrivo in Italia, abbiamo sentito la terribile notizia del ritrovamento dei corpi dei settler. Come tutti, sapevo cosa c’era in serbo per il Palestinesi, ed ero preoccupata a morte. Questa volta, però, non ero là fisicamente. Dovevo seguire le notizie e immaginarmi l’atmosfera attraverso le parole dei miei amici e dei telegiornali (vi risparmio i miei commenti sulle notizie italiane riguardo agli eventi, mi viene ancora da vomitare).
Tutti mi ripetevano che me ne ero andata appena in tempo, il che, naturalmente, in un certo senso è vero. Sarebbe stato molto difficile gestire la situazione senza mio marito e con un figlio adolescente i cui amici più vicini sono presi di mira e minacciati dalla campagna di odio fomentata da alcuni israeliani.
Muhammad Hussein Abu Khdeir, il ragazzo palestinese che è stato rapito, torturato e bruciato per vendicare la morte dei tre settler, era il cugino di un amico di Mattia.
Però allo stesso tempo il fatto di essere lontana mi riempie di angoscia. Dover immaginare piuttosto che vivere tutta l’atmosfera è un peso ulteriore nella già difficile situazione. Ovviamente dopo quattro anni e mezzo non fatico a contestualizzare la violenza, ma non è e non sarà mai lo stesso che essere fisicamente presente.
Lasciare un paese che amo e che è vittima di una terribile ingiustizia è un’esperienza nuova e amara. Salutare gli amici il cui destino è già scritto dall’indifferenza del mondo e dalla violenza di uno stato militare, mette a dura prova il mio ottimismo e la mia gioia di vivere. Come posso rispondere alla domanda “Sei felice di andare in un nuovo posto e lanciarti in nuove avventure?”. Ovvio che lo sono. Ma non essere presente fisicamente a testimoniare il barbaro trattamento che israele impone ai Palestinesi, e non poter far sapere ai miei amici palestinesi che sono vicino a loro, con l’anima e con il corpo, è una delle sfide più dure che questa vita mobile mi abbia mai fatto messo davanti.
si, è proprio una dura prova, sforzarsi di essere felici quando sai benissimo cosa stanno passando loro. ..
scusa, volevo commentare questo post, non l’altro… ma la sostanza non cambia 😉 ti ho pensata in questi giorni e mi chiedevo come stessi, se fossi già partita… ora che ho letto come ti senti posso solo mandarti un abbraccio virtuale perchè chi non ha vissuto li non puo’ immaginare come sia, e non puo’ immaginare come sia andarsene, e tantomeno come sia andarsene cosi… a presto, Giovanna