Le città asiatiche
Io ho i miei tormentoni. Londra è uno di questi, ma anche il mio spinoso rapporto con le città asiatiche non è da meno 😀
Provo a spiegare perchè proprio non mi connetto…
Nonostante abbia trascorso tre anni e mezzo della mia vita in questa parte di mondo, non ho accumulato una conoscenza che fa di me un’esperta dell’Asia. Per una serie di questioni di salute e, all’inizio del mio soggiorno, anche famigliari, il tempo per girare in lungo e in largo si è ridotto drasticamente. Abbiamo viaggiato poco. Un poco pur sempre intenso e bellissimo, come il giro in Giappone con nostro figlio Mattia o la Cambogia a Natale scorso. Le impressioni che ho ricavato, però, non sono state consolidate da più ritorni.
Anche perchè, diciamocela tutta, di tornare in alcuni posti proprio non me ne è venuta voglia. Di capitali ne ho conosciute quattro: Jakarta, Singapore, Kuala Lumpur e Phnom Phen. Ad eccezione di quest’ultima, che mi è piaciuta molto, le altre tre mi hanno lasciato una sensazione di plasticità e di innaturalità che non riesco proprio a scuotermi di dosso.
Singapore mi ha impressionata dalla prima volta in cui ci ho messo piede. Mi ha colpita la mancanza di calore, di realtà. Ho avuto la sensazione di trovarmi in una città dei Sims, un videogioco che piaceva molto ai miei bambini, che ti faceva arredare le case per famiglie di diversa grandezza. Tutto era molto artificiale, ovviamente, e perfetto. Ecco, questa è la sensazione che mi ha comunicato Singapore la prima volta che l’ho visitata. Come se qualcuno avesse preso un paio d’alberi, qualche grattacielo, qualche scultura, e li avesse sistemati con cura per creare un ambiente artificiale in cui tanti Sims si sarebbero mossi.
L’unica volta in cui ho avuto uno scossone interno, è stata quando sono arrivata di notte, e nella città deserta, mentre il mio taxi mi portava all’ospedale, ho visto un camion carico di lavoratori (edili?), seduti alla meglio sul cassone delimitato da sbarre di legno. Un’immagine che me ne ha evocate altre non certo belle, e che mi è rimasta impressa come un fotogramma rubato a una città ricca, sfavillante e perfetta.
Di Jakarta ho già parlato a lungo e un po’ ovunque. E posso confermare che dopo tre anni e mezzo di permanenza sono ancora alla ricerca di qualche angolo che riesca a entusiasmarmi almeno un po’. Di autenticità ne ho trovata, non lo nego. L’ho trovata in alcuni mercati, tra cui quello di cui parlo qui, simpaticissimo. O a Sunda Kelapa, il vecchio porto della città. In fondo l’ho trovata anche nell’incredibile esperienza di salire sul Monas, il monumento simbolo di questa incasinata città. Ma sono sacche isolate, che si fatica a raggiungere. Una ragazza che sta per traferirsi a Jakarta mi ha chiesto recentemente se proprio non ci sono zone in cui camminare, e le ho detto sì, ci sono (poche), ma devi prendere la macchina per raggiungerle 😀
Recentemente sono stata qualche giorno a Kuala Lumpur. Lo scopo del mio viaggio era ritrovare alcuni cari amici che non vedevo da anni. In questo senso è stato bellissimo. Già che ero lì, però, mi ero detta prima di partire, sarebbe carino approfittare per conoscere un po’ la città. E mi sono stupita io per prima della poca voglia che mi è presa di uscire. Una volta sistemata nel mio bell’hotel, con una connessione efficiente e tante ore d’indisturbato lavoro davanti a me, ero contenta così.
Avevo chiesto a chi conosceva Kuala Lumpur di indicarmi le cose imperdibili. Ho anche fatto le mie brave ricerche in internet. La sensazione che ho avuto da subito, però, è stata di grande déjà-vu, come se conoscessi il modello, come se avessi già camminato nei mercati della città, come se non ci fosse nessuna sorpresa ad aspettarmi dietro l’angolo.
Sono ugualmente andata a fare un giro, anche perchè amo sempre muovermi da sola in posti che non conosco, godo dell’avventura in sè. Ho preso un bus gratuito che fa un grande giro del centro città. Ho provato, esattamente come a Jakarta, la stessa sensazione di soffocamento, forse solo lievemente attutita dal fatto che per le strade ci sono meno persone e meno motorette. Ma poi di nuovo grattacieli, di nuovo torri, chi le fa più alte è più bravo, di nuovo sfavillanti negozi di marche proibitive, fontane, centri commerciali e hotel a go go.
Dicevo a mio marito, andando a Kuala Lumpur, che quello che mi spinge a scoprire posti nuovi è la gioia di entrare in contatto con il passato. Oppure avere occasioni di entrare facilmente in contatto con il modo di vita della gente. In queste grandi città asiatiche il passato lo stanno completamente cancellando. D’accordo, questo succede ovunque, ma in alcuni luoghi il processo è meno tagliente, più negoziato. Se quello che vedo riflette davvero il modo in cui vive la gente (di corsa su moto e macchine, dentro e fuori da palazzi di vetro, su e giù dai flyover), allora non m’interessa.
So che non è così. Non sono tanto presuntuosa dal giudicare dei luoghi se non sono riuscita a penetrarli. Ma se non sono riuscita a penetrarli una ragione ci dev’essere. Perchè non era così in Africa. Là tutto era nudo e accessibile. Non era così in America Latina, dove se era difficile (quando lo era) accedere a determinati luoghi, c’era la gente a darti la chiavi d’entrata nella cultura. Era diverso anche in Palestina, dove camminare per le strade era una lezione di vita via l’altra.
Mi è impossibile penetrare un posto che non conosco se non posso camminare sulle sue strade. Se non posso incontrarmi coi suoi abitanti, vedere le tracce che il loro passaggio lascia sul selciato, e attraversare i momenti di aggregazione spontanea. Questo mi è mancato dall’inizio nella mia avventura asiatica, e continuerà a farmi sentire un grande buco quando ripenserò al mio complicato rapporto con questa parte di mondo.
Che analisi attenta. Buon proseguimento. 🙂