Le ultime volte dell’espatrio
Poco prima di lasciare Gerusalemme, nel 2014, avevo scritto questo post sui sentimenti prepartenza che mi agitavano. Tra le altre, parlavo anche di quando si entra nella spirale delle “ultime volte dell’espatrio”, cioè di quando comincia il conto alla rovescia.
Mancano ancora diversi mesi a lasciare Ginevra, ma non mi faccio ingannare. La vita mi ha insegnato che più si cresce, più il tempo vola. So che in un battito di ciglia mi ritroverò a scrivere il tradizionale addio alla città che mi ha accolta in questi ultimi anni, e a farmi la foto di rito davanti a una porta che difficilmente varcherò ancora in futuro.
Tempo fa, tornando dalla piscina, ho trovato i pesci che hanno rallegrato il mio periodo natalizio sistemati in strutture di legno, pronti a esser portati via e riposti in attesa del prossimo inverno. Io non sarò qui a vederli, perchè mio marito va in pensione ben prima che i pesci vengano riappesi.
E anche se ero piuttosto impivita perchè speravo che riappendessero le splendide carpe di due anni fa, e invece ci sono toccati questi grassi pesci tropicali, ho aggiunto un’ulteriore cosa alla mia lista delle ultime volte dell’espatrio.
La vita, in qualsiasi luogo del mondo, è scandita da abitudini, piccole tradizioni, riti, eventi. A volte ci vuole tempo per scoprirne alcuni che poi si rivelano molto importanti, e diventano parte delle nostre routine. Sto pensando al Festival di Letteratura di Ubud, che ho scoperto a metà del mio soggiorno indonesiano, e che sono riuscita a frequentare tre volte, ogni anno in un crescendo di felicità e famigliarità. O al Carnevale di Barranco, quando vivevo a Lima, un evento che aspettavo ogni primavera con rinnovata gioia.
Qui a Ginevra, a onor del vero, non ci sono cose che mi mancheranno a fondo. Se non le ho trovate finora, dubito che le vivrò da qui a ottobre. Resta però il fatto che le ultime volte dell’espatrio mi portano a riflettere nuovamente sulla transitorietà che ho impresso alla mia vita. E ora che l’espatrio come l’ho conosciuto fino ad oggi sta per concludersi, mi sembra di cogliere appieno quello che l’ha marcato. L’ebbrezza di arrivare in un posto nuovo ma anche la fatica. Il senso di provvisorietà che ha sempre permeato le relazioni con le persone conosciute nei vari paesi, ma anche la profonda connessione che proprio grazie a questa provvisorietà si creava. La gioia di vedersi funzionare sempre in nuovi ambienti, ma anche la consapevolvezza che non mi sarei mai vista vivere indefinitivamente in un contesto unico.
Quando passo per Milano e vado a trovare mio fratello nel suo negozio di chitarre, lo ritrovo circondato da amici e artisti vecchi e nuovi, che insieme vanno a pranzo, spesso nello stesso luogo, si raccontano, in breve vivono insieme. E’ una gioia che mi dà sempre una punta d’invidia. In tutta la mia vita adulta non ho mai provato l’ebbrezza di avere qualcuno con cui dividere materialmente la vita per più di un pugno di anni (ovviamente a parte marito e figli, ma questo è un altro discorso).
E mi domando se l’intensità della relazione è maggiore rispetto al vivere insieme per un periodo di tempo limitato. Un’amicizia non è fatta solo di routine compartite, ma anche di valori condivisi, di attimi in cui i bisogni e le risposte collimano, e molto ancora. E in fondo non mi interessa nemmeno. Pur se private di un quadro stabile e continuato, le mie amicizie si sono sviluppate in maniera soddisfacente e piena.
Quello che mi domando in questo momento, in cui le ultime volte dell’espatrio si affacciano sempre più spesso nella mia vita ginevrina, è come reagirò alla fine della transitorietà. Come mi adatterò all’idea che tutto quello che costruirò una volta rientrata, non dovrà più subire interruzioni. E’ un cambiamento epocale, probabilmente difficile da capire a chi non ha mai vissuto l’espatrio in maniera ripetuta.
Nel chiudere questo post mi torna alla mente con tenerezza un momento del mio passato. Ero a Milano, nel ’96, ad aspettare il mio secondo bambino. Stavamo vivendo a Brazzaville, in quel momento, e il piano era che, una volta partorito, io sarei tornata al più presto in Congo per far riprendere l’asilo al nostro bimbo grande, già sufficientemente sballottato da un’estate con la mamma a riposo e l’arrivo del fratellino.
Nonostante questo, ricordo di aver preparato con minuziosa precisione il fasciatoio, il lettino, e riempito tutti i cassetti di tutine e pannolini, come se dovessimo far crescere il nostro Mattia in quell’appartamento milanese, e non in una capitale africana a chilometri di distanza. Mio marito si era stupito e mi aveva esortata a organizzare solo lo stretto necessario, ma io volevo avere i cassetti pieni e tutto sistemato senza una parvenza di provvisorietà.
Ora mi commuovo, ripensandoci. In quel caparbio bisogno di disegnare un po’ di stabilità per me stessa e il mio bambino, vedo la misura di quanto a volte sia stato pesante dover chiudere baracca e burattini per ricominciare altrove. L’idea che quello che affronterò a breve sarà l’ultimo trasloco internazionale mi solleva e mi agita insieme, ma una cosa è certa: non vivere più con addosso l’aura della provvisorietà sarà un sentimento tutto nuovo, e in quanto tale, benvenuto.