Vent’anni di mio figlio
Riflessioni miste ai vent’anni di mio figlio…
Ieri il mio figlio più grande ha compiuto vent’anni. Vent’anni. Dentro alla mia vita ce n’è un’altra che si è sviluppata nel giro di venti lunghi anni. Son tappe che fanno pensare.
In particolare oggi penso al fatto che questi vent’anni, a parte delle brevi parentesi, li abbiamo trascorsi fuori dall’Italia. Per lui i giochi sono ormai fatti: su 7300 giorni di vita, ne ha spesi 1650 in Italia, di cui 720 di fila, dai 6 agli 8 anni, e i restanti suddivisi tra vacanze, vacanzine e periodi tra un contratto e l’altro.
Io, che non sono una third-culture kid, ma che ho espatriato per la prima volta all’età di 27 anni, oggi mi chiedo se non dovrei magari sentirmi stanca di girare, stufa di dovermi adeguare sempre a nuove vite. Forse dovrei pensare alla pensione, o a cosa faremo il giorno in fondo poi non così lontano (i vent’anni di mio figlio sono passati in un soffio…), in cui mio marito non lavorerà più.
Ma soprattutto mi chiedo se è normale provare ancora, dopo tutti questi anni, la profonda eccitazione che mi scuote ogni volta che percorro le strade di Gerusalemme, o quando mi preparo a scoprirne un nuovo quartiere, o a svelarne un altro pezzo di intricata storia.
Questa sensazione, quasi violenta e mai sopita, l’ho provata in tutta la sua potenza un paio di giorni fa quando ho deciso di rientrare a casa dalla scuola di mio figlio (il secondo) attraversando Mea Sharim, il più grande e antico quartiere di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme, e dove il tempo sembra davvero essersi fermato a un paio di secoli fa.
Guidavo in queste viuzze strette, soffocanti, bianche nere grigie e beige, tappezzate di manifesti bianchi e neri con scritte a me incomprensibili, e con una concentrazione di passeggini che mai ho visto tale in vita mia, e cercavo di assorbire più che potevo quello che mi stava intorno, senza dar troppo nell’occhio perché non si sa mai come possono reagire questi personaggi,
E non mi capacitavo di due cose: la prima, che esistano al mondo posti simili, con gruppi umani che indossano un’uniforme (brutta, secondo i miei gusti) tutti i giorni della loro esistenza, e che non possono nemmeno – ma quel che è peggio è che non ne sentono neanche la voglia – agghindarsi la chioma come gli aggrada. Secondo che io, piccola e insignificante creaturucola, ho il privilegio immenso di poter entrare quando voglio (almeno, finora è così…) in questa realtà sovrannaturale, e guardarla coi miei occhi, respirarla coi miei polmoni e assorbirla con le mie cellule.
La stessa sensazione di grande incredulità che provo, più spesso che non, quando mi immergo nella città vecchia di Gerusalemme, e mi perdo nelle sue viuzze che, anche loro, sembrano essersi fermate nel tempo, se non fosse per le bandiere israeliane che spuntano all’improvviso a sovrastare le case espropriate.
Mi è successo un paio di settimane fa, quando con marito e figlio siamo andati a zonzo senza orario e senza meta. Ho scoperto (a due anni dal mio arrivo in questa folle città) delle spettacolari cose di cui conoscevo l’esistenza ma che non avevo ancora visto, come la piccola porzione di Muro del Pianto, che vi assicuro, è un’esperienza (peccato non averla potuta fotografare), e uno splendido edificio dell’epoca dei Mamelucchi che se ne sta lì, seminascosto e testimone di una delle più profonde ingiustizie dell’umanità, in tutta la sua bellezza e maestosità.
Ma il visivo che mi scuote nella città vecchia non è solo negli edifici maestosi. E’ anche, e soprattutto, nelle porte, nei disegni sui muri, nella semplicità e bellezza d’animo della gente che la abita, dai bambini ai vecchi.
Quello che mi tiene sempre all’erta in tutta Gerusalemme è la concentrazione di stimoli per metro quadrato: lingue, culture, sentimenti umani, razzismi, colori, sapori e divise, si accalcano in un ridottissimo spazio. Qui c’è tutta l’umanità, in tutte le sue forme espressive, e in tutta la sua assurdità.